In quest’epoca distopica in cui viviamo, la bellezza di Venezia è persino strafottente. Sotto la pressione del virus tutto ha cambiato aspetto. La luce, i colori, i suoni. I gabbiani se ne stanno sdraiati al sole in mezzo a Piazza San Marco. Il canto dei merli non viene più coperto dal fragore dei motoscafi. Niente grandi navi. Niente lancioni da Jesolo. Zero flotte di taxi d’acqua che sfrecciano in Canal Grande. Niente plotoni di turisti che riescono a bloccare anche la calle più larga. Il rumore dei nostri passi echeggia nelle calli, tanto che la frase di Jean-Paul Sartre “qui il pedone è ancora il re” è tornata ad essere attuale.
Giriamo la città come una meraviglia improvvisamente accessibile. Con dei canali lisci come specchi che nessuno ha mai visto – anche perché quando qui, infatti, imperversava la peste, o anche il colera, in città vivevano più veneziani: ai tempi della Morte a Venezia più di 154mila, e probabilmente nelle calli, nonostante il coprifuoco, si incontravano molte più persone rispetto al giorno d’oggi in cui i veneziani rimasti sono solo 52mila.
Lo stupro di Venezia è sospeso. Sarebbe bello se questo significasse una svolta.
Ma come può essere l’inizio di una svolta se lo stupro di Venezia rappresenta la visione politica dominante con cui la città viene governata da oltre trent’anni? Gli ultimi quattro sindaci veneziani, dal mitico Adriano Celentano chiamati “i quattro dell’Orsa peggiore”, sono tutti predicatori del fondamentalismo turistico di cui fede prevede: “Veneziani fuori, turisti dentro”. Non hanno mai considerato Venezia come spazio vitale, ma unicamente come macchina da soldi, e chi non presta fede al credo fondamentalistico del turismo di massa come un guerriero di Dio viene decapitato.
Così fu per l’artigianato veneziano, la cantieristica, la piccola industria manifatturiera, il vetro di Murano, le sedi dei giornali, gran parte delle istituzioni universitarie, librerie, cartolerie, banche e per praticamente tutti gli uffici del terziario. Chi guadagna con il turismo, non sono i veneziani, ma i grandi gruppi industriali, come Airbnb o i multinazionali delle crociere. Il turismo non ha reso ricca Venezia, l’ha impoverita. Qui si arricchiscono solo i marchi di lusso che in Piazza San Marco si fanno pubblicità su manifesti grandi come piscine olimpioniche.
La maggioranza dei negozianti non risiede a Venezia – si vede quando c’è l’acqua alta e le merci galleggiano in acqua. Addirittura l’ospedale di Venezia è stato privato di importanti funzioni vitali – giustificato dal numero calato di abitanti. La presenza di milioni di turisti non viene presa in considerazioni. Se ti colpisce un infarto, non ce la fai ad arrivare in ospedale in terraferma.
Ma siccome le monoculture sono vulnerabili, la macchina del turismo di massa si è già spenta a Venezia a partire dal 12 novembre 2019: dieci acque alte eccezionali, di cui una apocalittica di un metro e ottantasette, hanno messo la città in ginocchio. Una pioggia di cancellazioni in seguito ai danni dell’acqua alta. Poi si sperava nel carnevale – che fu disdetto con grande ritardo quando la pandemia era già scoppiata.
Adesso Venezia è ferma da oltre un mese. Sarebbe stato bello se questa brusca frenata avesse fatto capire quanto è fragile la monocultura turistica. Se adesso qualcuno a Venezia avesse detto: “Quando tutto sarà finito, nulla sarà più come prima. Finita l’emergenza, il nostro approccio con la vita e con l’ambiente dovrà cambiare”. Ma niente. Gli unici che chiedono di cambiare rotta sono gli attivisti delle associazioni civiche.
Sono loro che ricordano che Venezia è esposta come nessun’altra città alle sfide del cambiamento climatico. Sono loro che ricordano che Venezia potrebbe essere la sede ideale di un’agenzia internazionale per l’ambiente. Qui dovrebbero essere studiate le soluzioni del futuro, sviluppando una cultura ecologica.
Sono loro che ricordano che le sorti di Venezia non vengono decise a Venezia, ma in terraferma, e che senza un’autonomia amministrativa non cambierà mai nulla. Una città così fragile potrebbe essere salvata solo da uno statuto speciale: Venezia potrebbe ottenere esenzioni e sgravi fiscali per attrarre nuovi residenti, aziende e imprese di qualità compatibili con uno degli ecosistemi più fragili al mondo, solo così tornerebbe spazio vitale.
E sono loro che ricordano che i veneziani non solo non hanno mai chiesto il Mose, ma hanno combattuto questa mega opera che era già obsoleta quando fu progettata. Il Mose rappresenta un problema, non una soluzione. Ha provocato un aumento di alte maree. Oltre ad essere il più grande scandalo di corruzione dai tempi del secondo dopoguerra, il Mose è solo un monumento dell’avidità di una classe politica che ha fatto sparire più di cinque miliardi e mezzo di euro nel mare e nelle loro tasche. E si continua imperterriti a costruire – chiedendo un ulteriore miliardo di euro, mentre le soluzioni per migliorare le difese locali con una serie di interventi minori (tra cui il rialzamento di rive e fondamente) non sono mai state realizzate.
E sono solo le associazioni civiche veneziane che hanno ricordato che non si può salvare Venezia con i suoi beni culturali senza salvare la laguna: la rinaturalizzazione della laguna è indispensabile. Rappresenta il polmone della città e la difesa della salute: Venezia è la città portuale più inquinata d’Italia e va protetta da decisioni i cui interessi sono altrove (lo scandalo Mose insegna). Ma già oggi, dopo la seconda acqua alta della storia, si riparla del porto crocieristico stabile in Marittima con scavo del canale Vittorio Emanuele, nonostante tutta la comunità scientifica abbia confermato che lo scavo dei canali determina danni alla morfologia lagunare.
It’s now or never. Non possiamo tornare indietro nel passato.
(Questo articolo è uscito il 28 aprile 2020 sul Ytali)