Miniere. Morire.

Mein Vater, meine Großmutter und ich. Vor der Zeche Monopol.

Questa immagine mostra mio padre, mia nonna e me davanti alla miniera in cui mio padre è morto a 27 anni – lavorando in sotterraneo, come si suol dire bellamente. Per questa ragione, non condivido il sentimento di nostalgia che ruota attorno alla chiusura delle miniere carbonifere della Ruhr. E neppure lo Steigerlied, il canto tradizionale dei minatori. Durante il funerale di mio padre, non appena hanno iniziato a intonarlo, mia madre è uscita dal cimitero.

*

Ogniqualvolta si recava nella Foresta Nera mio nonno veniva assalito da crisi di asfissia. Quando i suoi occhi non vedevano più miniere, gli veniva a mancare il fiato. Nella Foresta Nera viveva sua figlia Renate cui i miei nonni facevano visita ogni estate. La pneumoconiosi di mio nonno, tuttavia, mal sopportava l’aria salubre, e a prova di legge, della stazione climatica a tal punto che i nonni erano costretti a fare ritorno nella regione della Ruhr sempre prima del previsto. Ed era soltanto vedendo la torre d’estrazione e potendo respirare quell’aria pregna di odore infernale, punteggiata talvolta dalla fuliggine, che mio nonno si sentiva rianimare. A quel punto lo si poteva ritrovare al bancone di Heidekrug a bere una birra, forse due, con i minatori che uscivano dal lavoro e che lo prendevano in giro giacché da prepensionato avrebbe ricevuto i soldi dalla posta. Quando mi vedeva passare con la bicicletta, mi faceva cenno di entrare e mi presentava a quegli uomini. “Questa è la mia nipote più grande. La figlia di Heine”, diceva.

Dentro a Heidekrug c’era un odore stantio di birra e di fumo e quegli uomini mi lanciavano sguardi alquanto abbattuti. Mi compravano delle noccioline, come se con ciò potessero rimediare a quel momento di imbarazzo che il mio sguardo aveva provocato in loro. Me le servivano in un sottobicchiere cui piegavano gli angoli verso l’alto e restavano in silenzio. Per un istante non si sentiva altro che il ronzio del frigorifero.

“Ah, Heine”, diceva infine qualcuno nel silenzio generale. “Sì”, rispondeva mio nonno con voce strascicata. A quel punto si schiariva la gola e chiedeva notizie del giocatore di skat, un ex minatore che, stando alle sue parole, non aveva mai lavorato a dovere – all’istante, questa opinione ravvivava la cerchia di amici (“Ora lavora a cielo aperto e non si è mai rotto più di tanto!”) e per un momento, faceva dimenticare loro la mia presenza.

Parlavano di mastri del puntellamento, di capisquadra, di gallerie dismesse, di sorveglianti distrettuali, di cose accadute – proprio allora che il vecchio Kokoschinski era rimasto vittima del crollo e per tre mesi era dovuto restare sdraiato su un letto dell’ospedale della miniera. “Quella volta nello spogliatoio bianco”, “nello spogliatoio nero”, “nel pozzo di ventilazione” e a me sembravano degli extraterrestri che parlavano delle loro vite stando su un altro pianeta. Su Monopolio, su Grillo, su Saturno.

Me ne stavo seduta su uno sgabello con le gambe a penzoloni, le noccioline che mangiavo prendendole dal sottobicchiere avevano un leggero sapore di muffa e scrutando le facce di quegli uomini cercavo di capire i loro segreti. A un primo sguardo sembravano belli puliti e innocenti. Portavano chiusi i bottoni superiori delle camicie. I capelli, lucidi di brillantina, erano pettinati all’indietro, i loro visi pallidi e con piccole cicatrici bluastre. Sulle ciglia, tutt’attorno agli occhi, alcuni avevano ancora della polvere nera di carbone che donava al loro sguardo una strana profondità. Tutti loro avevano con sé una borsa portadocumenti che avevano appoggiato per terra, portadocumenti in cui non c’erano affatto documenti, ma gavette e bricchi termici. Non tornavano dal lavoro, ma da un universo con una scansione del tempo tutta sua. Dove un giorno veniva misurato in turno della mattina, turno del pomeriggio e turno della notte.

In sotterraneo. Suonava come se essi vivessero lì la loro vera vita. In quella remota galassia verso cui li trasportava il bus che di mattina partiva da Fritz-Erler-Straße. Su pianeti cui le donne non potevano accedere. Per quanto mi sforzassi non riuscivo a vedere nient’altro che la collina di pietre e il nastro trasportatore della nostra miniera che di notte brillava come una stella. Di tanto in tanto vedevo passare il treno dell’acciaieria Klöckner con i vagoni carichi di carbone, ai miei occhi erano armadilli d’acciaio che strisciavano lungo il tracciato, e quando con mia madre, la zia Ruth e lo zio Heinz andavo a fare la spesa, in lontananza vedevo dirigibili Zeppelin fumanti che erano precipitati a terra, in piena Dortmund vedevo giganteschi sommergibili arenati e coricati lungo la periferia, poco prima di Hamm vedevo un carro armato di mostri primordiali sputati fuori da un vulcano. Tutto era grande, enorme, sconfinato – più alto e più grande della chiesa del Sacro Cuore di Gesù nella quale mi sentivo completamente persa e mi venivano sempre le vertigini quando tentavo di guardarne il soffitto.

Stavo seduta sul fondo della Volkswagen di zio Heinz e guardavo come tutte quelle creature fantastiche facevano mutare di colore il cielo, come questo di notte si tingeva di rosa e di giorno, talvolta, di giallo. Qualche giorno riuscivano a oscurare persino il sole e mi meravigliavo di come gli adulti potessero sottomettersi indifferenti, anzi, assorti nei loro pensieri a questo potere.

Vicino a questi mostri non vedevo mai persone. Tutti i siti minerari erano ampiamente recintati e protetti da mura alte cosicché potevo farmi un’idea solo sulla base di quanto riuscivo a vedere, tutto aveva fine davanti alla porta della miniera. E proprio qui vedevo con i miei occhi come tutti i miei zii, anche quelli acquisiti, e anche tutti gli uomini del nostro complesso, tra cui il padre e gli zii della mia amica Gabi Evers, il padre di Martina Josuweit e persino Patschkowski, il signore sordomuto dell’appartamento sopra al nostro, scomparivano ogni giorno dietro questa porta.

Davanti al fatto che scomparissero senza mostrare traccia di agitazione la spiegazione che mi davo era che nel sottosuolo gli uomini conducevano una guerra segreta, sotterranea. Una guerra contro mostri che urlavano, soffiavano di rabbia e si infervoravano. Una guerra di cui non potevano proferire parola poiché altrimenti avrebbero messo sconsideratamente a repentaglio la vittoria e per poter proseguire la lotta erano costretti ad accordarsi solo mediante parole in codice: il tunnel rettilineo, la traversa, la perforatrice. Perciò si mostravano così indifferenti, anzi, fiduciosi al cospetto dei mostri primordiali. Si sentivano superiori. La vittoria era vicina. Avulsi dalla realtà, ridacchiavano: “Vi ricordate Alfred Czichon, Heinz Kaminski, Willi Pollakowski?”, già solo sentirli nominare li faceva ridere come se si trattasse di una barzelletta. Rammentavano a mio nonno che aveva sempre maledetto il suo lavoro, che bestemmiava sulla strada per la miniera, su quella del ritorno a casa, e che anche in sotterraneo imprecava, e nonostante non si fosse mai rotto, visto che aveva lavorato tra i capi minatori, ossia là dove essi collocavano i mezzi morti. Discorrevano di eroi di guerra, di minatori rinchiusi che erano stati salvati come per miracolo dopo essere rimasti al buio per dieci giorni, parlavano del grisù e a tal proposito, si chiedevano in quale galleria stessero lavorando quando Heine rimase vittima dell’incidente. “Fu come un incendio improvviso”, disse uno. “Come una paralisi”, disse un altro.

Lentamente, scivolavo giù dal mio sgabello. Sulla gonna mi pulivo le dita, cui era rimasto attaccato un po’ di sale delle noccioline, e al nonno dicevo che dovevo tornare a casa. Quegli uomini mi osservavano sorpresi del fatto che fossi ancora lì. Si guardavano l’un l’altro come se se ne dovessero vergognare. “Vuoi un gelato?”, domandava uno. E io dicevo: “No, grazie”.

 

Chi volesse saperne di più su come è crescere senza padre nella regione della Ruhr, può leggerlo nel mio libro “Meine Mutter und ich”. La miniera dove lavorava mio padre si chiamava “Monopol”.

Traduzione dal tedesco di Stefano Porreca.