“Quella volta che caddi nel Canal Grande. Sulla vita a Venezia”

Un lettore veneziano – trapiantato a Napoli (posso anche rivelarvi il nome: Piero Pavanini – germanista di Ca‘ Foscari) ha scritto una presentazione del mio libro nuovo in italiano. Mi ha fatto un tale piacere che la voglio condividere con voi: 
 
A qualche veneziano certi passaggi del libro di Petra Reski potranno sembrare un po’ convenzionali; i veneziani, si sa, sono gente altera, sanno di vivere in una città unica al mondo, si sentono i pochi – ultimi – depositari dei suoi segreti, una razza in via d’estinzione, e spesso guardano con una certa altezzosità le cose che vengono dette su di lei. Figuriamoci poi se a scrivere è una “foresta” che vuole entrare nell’intimo di Venezia! L’episodio che dà il titolo al libro, ad esempio, sembra quasi scontato; non però se lo si prende come una sorta di rito di iniziazione: quale veneziano non è caduto almeno una volta in un canale nel corso della sua vita?
 
Ma alla gran parte dei miei concittadini e a tutti quelli che conoscono, bene o poco, Venezia, il libro apparirà per quello che è: una dichiarazione d’amore, appassionata ma mai cieca, sincera e insieme critica da parte di una che di Venezia è diventata a tutti gli effetti cittadina, migliore anzi di tanti che veneziani lo sono di nascita.
 
Nei capitoli, che per lo più riportano nel titolo nomi della toponomastica veneziana (da San Piero a Calle dei Assassini, da Campo S. Giovanni e Paolo a Calle della Mandola) o altri luoghi con valore emblematico (Ca’ Farsetti, San Michele, San Servolo, Ponte Calatrava ecc.), vengono sì passati in rassegna temi noti del “problema Venezia” – l’acqua alta, lo spopolamento della città, l’invasione turistica, le “grandi navi”, il MOSE ecc. – ma questi sono affrontati con il piglio giornalistico, battagliero e ben documentato, di chi si è fatta un nome (non a caso attirandosi anche decine di denunce) con reportage sulle infiltrazioni della mafia in Germania.
 
Petra Reski parla della Venezia che cede (o ha dovuto cedere) e si trasferisce in terraferma, ma anche, con rabbia e voglia di cambiare le cose, dell’altra Venezia, quella che non si rassegna e combatte, da cui lei stessa si lascia trascinare e che l’ha trasformata in protagonista attiva, tanto da candidarsi alle ultime comunali per una lista alternativa, uno di quei “comitati cittadini” che, sottolinea con amara ironia, a Venezia sono ormai più numerosi degli abitanti stessi.
 
Diversamente da molti illustri ospiti stranieri che nel corso del tempo hanno vissuto Venezia quasi solo per se stessi, beandosi privatamente del suo splendore ma senza viverla come e con i suoi abitanti, Petra Reski mescola nel suo libro anche un diario personale del “diventare veneziano”, di chi, dalla Ruhr, si trasferisce nei primi anni novanta in questa città particolarissima (Petra cita lo scrittore austriaco Friedrich Torberg: “tutte le città sono uguali, solo Venezia è un po’ diversa”). E del “diventare veneziano” fanno naturalmente parte cose come imparare a portare una topetta con motore fuoribordo nei canali della città. Petra descrive con gustoso umorismo le sue esperienze di guida districandosi fra inflessibili gondolieri, padroni assoluti delle acque veneziane, e il battesimo del fuoco nel canale della Giudecca: “imparare a portare una barca a motore nel canale della Giudecca è come mettere al volante, a Napoli, qualcuno che non ha mai guidato in vita sua, mentre si scatena un terremoto ed erutta il Vesuvio: sotto di te la terra si rivolta e devi destreggiarti fra campi in piena esplosione, schivare corpi volanti che ti schizzano da destra e sinistra e, nel contempo, guardarti da un’infinità di enormi TIR che ti tagliano la strada”.
 
Ad accompagnare Petra nel suo apprendistato c’è un veneziano doc, che è poi la prima ragione del suo trasferimento, un uomo che non viene mai citato per nome, nel libro è sempre solo “il veneziano al mio fianco” o tutt’al più “della mia vita”, ma che non sarà difficile individuare grazie ai riferimenti alla sua attività. Ironia della sorte, o della scelta, Petra e il suo “veneziano” non si sposeranno a Venezia (troppo banale…) e nemmeno a Monaco, ultima sua residenza (l’unico turno libero era alle 8 del mattino…), ma nel suo paese di origine, Kamen, non lontano da Dortmund, quanto di più opposto a Venezia si possa immaginare…
 
Dal “veneziano al mio fianco” Petra impara a vedere in modo diverso e nuovo, talvolta con lo stupore di un bambino, il mondo segreto di Venezia, delle sue “pietre” e della necessità di trattarle con amore.
 
Concludo con un passaggio che mi è molto piaciuto, perché indica la lotta interiore fra chi non vorrebbe, da neoveneziana, indulgere a comportamenti “da turista” e l’impossibilità di resistere davanti all’immagine della Punta della Dogana abbagliata dalla prima luce di un mattino di tarda estate:
 
“Non credo al mio cuore e cerco convulsamente il mio telefono per fare una foto, e me ne vergogno un po’. Perché in genere mi prendo sempre gioco della furia di fotografare ogni gondola che passa, ogni piatto di spaghetti alle vongole, ogni cornicione veneziano. Come se si potesse portare con sé Venezia a piccole porzioni. Evidentemente nessuno crede più al ricordo nel proprio cuore. Nemmeno io. Ma forse questo bisogno compulsivo di fissare è solo una risposta umana a una sensazione che si prova quando si è testimoni di qualcosa che è molto, molto più grande di noi stessi, più grande della vita. Praticamente il sublime. E di fronte a cose che vanno oltre la nostra immaginazione, gli umani tendono ad agire sopra le righe“.

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