Per settimane nelle piazze e nei canali di Venezia il silenzio l’ha fatta da padrone. In questi giorni stanno spuntando i primi visitatori – e con essi un quesito: “Cosa succederà nei prossimi mesi?”
Di Petra Reski
Sulla banchina del nostro posto barca una gigantesca macchia nera fa tornare alla mente il lockdown. Una seppia agonizzante ha spruzzato qui il suo inchiostro prima di essere abbattuta da un gabbiano. Durante quelle dieci distopiche settimane, quando ci era consentito allontanarci da casa al massimo di 200 metri, il nostro canale sembrava illuminato da sotto e il fragore dei motoscafi non sovrastava più il canto dei merli, perfino i gabbiani si sono visti costretti a riprendere la loro attività principale. Andare a caccia di seppie e granchi, naturalmente è molto più faticoso che vivere comodamente nel turismo di massa, grazie al quale i gabbiani possono limitarsi a sfilare un sandwich di mano ai turisti. Per evitare episodi simili, sulla sua terrazza l’hotel Gritti è arrivato al punto di servirsi di un falconiere.
Da questa angolazione, anche i gabbiani vanno annoverati tra chi ha tratto vantaggio dalla monocoltura del turismo, che a Venezia, da trent’anni a questa parte, viene venerata alla stregua di una religione di Stato. E sebbene tutti gli agricoltori sappiano che le monocolture implicano un cospicuo impiego di fertilizzanti e fitofarmaci. A Venezia la monocoltura viene concimata con Airbnb, voli low cost, alberghi, navi da crociera e lancioni. E ancora, con resort di lusso al posto degli ospedali, con take away di tiramisù al posto delle botteghe di frutta e verdura e con negozi di occhiali da sole in promozione al posto degli studi medici. Quasi ogni giorno vengono irrorati nuove destinazioni d’uso per gli immobili e autorizzazioni speciali per gli speculatori. La vita quotidiana dei veneziani è stata estirpata al pari di un’erbaccia indesiderata. Sintetizzando, si elimina quanto serve per vivere. È una strategia molto semplice da capire. E altrettanto semplice da proscrivere – se non ci fossero in ballo gli enormi interessi legati al business planetario del turismo di massa, che, potendo contare ogni anno su un miliardo e mezzo di visitatori in tutto il mondo, è l’industria più importante del XXI secolo.
Scorci fotografici come quelli con dei bambini che giocano in un campo, della biancheria che sventola sopra un canale o dei gatti che vagano per le calli sono diventati merce rara. In compenso, nei vicoli dietro Piazza San Marco c’è un luccichio che ricorda Las Vegas. I camerieri servono enormi bicchieri di spritz e su una tenda si legge “Mangia, bevi e taci”. La visione del turismo a Venezia non può essere riassunta meglio.
Dopo che la stampa mondiale ha manifestato forti preoccupazioni per il futuro del turismo di massa a Venezia (“La Venezia abbandonata”, “Venezia ha bisogno dei turisti”, “I gondolieri di Venezia sono stanchi di oziare”), posso dare il cessato allarme: ho già rivisto dei russi cadere fuori dalle boutique di lusso con le loro borse griffate Louis Vuitton, dei clienti di Airbnb fallire nel digitare il PIN di accesso sulla porta d’ingresso del loro alloggio e dei turisti giornalieri mangiare la pizza dentro i cartoni stando seduti sui gradini di piazza San Marco. Ieri sera, mentre andavo dal ponte delle Guglie a San Marco, ho incrociato talmente tanti turisti che sono stata tentata di indossare la mascherina. E a bordo dei vaporetti si è tornati a stare così stretti com’è consuetudine a Venezia ormai da decenni.
È la quotidianità di un paese delle fiabe dove i tetti sono coperti di pizza, nei canali nuota pasta d’asporto e in bocca finisce dello spritz. Quando si va da Cannareggio a San Marco, occorre farsi strada a morsi attraverso una serie infinita di snack bar, pizzerie, ristoranti, caffetterie, succherie e take away. La venezianità consiste nelle rivendite cinesi di borse e custodie per telefoni cellulari, dai bazar bengalesi “tutto a un euro” con le gondole di plastica che ondeggiano, dai punti vendita della catena romana di gelaterie »Grom«, dai negozi della catena inglese di profumerie »Lush« e, per ultimo, dalle cioccolaterie napoletane »Nino & Friends«, dove il cioccolato fuso fuoriesce da fontanelle che assecondano la costante voglia dei turisti di auto-infantilizzarsi.
Venezia pare fungere da calamita per gli imprenditori di eccezionale talento, chi altri, infatti, vendendo semplicemente del cioccolato fuso, delle cover per smartphone o delle gondole ondeggianti, potrebbe pagare un affitto commerciale che va dai 10 ai 12mila euro al mese riuscendo dove gli esercenti locali hanno fallito?
Sì, Venezia è una città delle fiabe, ma non voglio lamentarmene. Per il momento l’afflusso turistico rimane accettabile – si potrebbe quasi dire: sarebbe un afflusso del tutto normale, se ci fosse ancora qualcosa di normale, qualora, cioè, ci fossero ancora segni di vita quotidiana. A Venezia, tuttavia, si reputa normale anche quello che in altri luoghi scatenerebbe il panico generale: solitamente tra le calli veneziane si accalcano 33 milioni di turisti ogni anno, di cui due terzi sono visitatori giornalieri. Nel 1997 Venezia contava ancora 68mila abitanti accanto a 13mila posti letto nelle strutture ricettive. Oggi, invece, i secondi superano i primi: a 51.638 veneziani fanno da contraltare 52.720 posti letto per turisti.
Nelle dieci settimane di lockdown, guardando le persiane chiuse, si poteva vedere come la vita fosse stata bandita dalla città. Con ciò si spiega perché molti dei miei amici tedeschi, a cui durante il confinamento ho inviato foto e video di Venezia, definivano spettrale ciò che noi vivevamo come un ritorno alla pace, visto che lo stupro quotidiano della città si era temporaneamente fermato.
Quello che manca è una normale quotidianità: persone che portano i figli a scuola oppure persone che litigano nelle proprie abitazioni – ed ecco perché sentire venire da un appartamento anche il più piccolo acciottolio di piatti può essere considerato un barlume di speranza.
Durante il lockdown i veneziani si sono esercitati a fare volontariato: giacché in alcune zone della città non ci sono negozi di generi alimentari, assieme alle altre donne del gruppo »Row Venice«, associazione sportiva che insegna la voga veneta agli amanti di Venezia, la regatante Elena Almansi ha consegnato la spesa agli anziani con la barca a remi. I giovani attivisti dell’organizzazione »Venice Calls«, dal canto loro, hanno distribuito mascherine e si sono occupati di fare la spesa e raccogliere denaro per le famiglie bisognose a cui il virus ha tolto i mezzi di sussistenza.
L’unico a non dare segni di vita è stato il sindaco Luigi Brugnaro. A parte un video-selfie in cui, alquanto alticcio, canta il grido di battaglia della sua squadra di basket assieme alla moglie, di lui si è persa ogni traccia: nessuna proposta, nessun piano, non una parola di sostegno né di incoraggiamento.
Tramite videoconferenze sulla piattaforma Zoom, sono stati i cittadini veneziani a chiedere un cambio di rotta rispetto alla monocoltura turistica e a ricordare che Venezia potrebbe essere la sede ideale di un’organizzazione internazionale per la tutela dell’ambiente. Come Venezia, nessun’altra città al mondo si trova a fronteggiare due delle più grandi sfide globali del nostro tempo: il cambiamento climatico e l’overtourism, ovvero il sovraffollamento di visitatori dovuto al turismo di massa. Anziché sprofondare sotto il peso di 33 milioni di turisti l’anno, la città, fanno notare, dovrebbe essere un laboratorio del futuro.
Grazie alla sua intrinseca sostenibilità, non è Venezia a inseguire la modernità, ma il contrario, sostiene l’architetto e urbanista veneziano Sergio Pascolo. Nel suo libro Venezia secolo ventuno, Pascolo mostra come il capoluogo lagunare abbia tutti i requisiti per il futuro. È una città a misura d’uomo che si erge al centro di un’incomparabile area di passaggio tra la terra e il mare, è il capoluogo di una regione con una produzione industriale di proporzioni eccezionali, è una fucina millenaria di arte e cultura ed è città università, del teatro e del cinema – com’è possibile che sia cinicamente condannata al declino?
A difendere tenacemente la città ci pensano gli abitanti di Venezia. Gli attivisti del Gruppo 25 Aprile hanno redatto un manifesto e chiedono di trarre una lezione dalla crisi dovuta al Coronavirus e di creare un equilibrio tra Venezia e la terraferma, tra il turismo e l’abitabilità della città, tra il traffico acqueo e la fragilità della laguna.
Per Venezia, altri ancora invocano uno statuto speciale, negatole fino ad oggi giacché, con l’attuale assetto amministrativo, i due terzi del Comune si trovano sulla terraferma. Anche per eleggere il sindaco, le scelte della terraferma, dove gli elettori sono quattro volte quelli delle isole, sono decisive. Quando si vota per eleggere il primo cittadino di Venezia, a sceglierlo sono gli abitanti di Mestre, Marghera, Favaro, Campalto e Chirignago-Zelarino.
Ad avere l’idea del Comune allargato fu un gruppo di abili signori dell’imprenditoria che, ai tempi di Mussolini, costrinse Venezia a unirsi con la città industriale di Marghera e la colonia operaia che sorgeva a Mestre. Marghera era pensata soprattutto come punto di raccolta per l’immondizia prodotta a Venezia, il che, dopo la costruzione dell’impianto petrolchimico negli anni 60, ebbe per conseguenza che i materiali altamente tossici smaltiti in queste discariche finirono col spargersi in laguna.
Ai tempi di Mussolini, sulla terraferma vivevano solo 40mila persone. Venezia, invece, contava 200mila abitanti. Oggi il rapporto si è quasi capovolto – cosa che, però, non ha contribuito a far fiorire la terraferma: con i suoi tristi hotel a forma di silos, Mestre sembra un sobborgo sovietico che è precipitato quaggiù per errore. Sebbene sia la terza città del Veneto per estensione, Mestre viene privata di ogni identità urbana e può vantarsi dell’unico primato di essere la città col più alto numero di morti per droga e di centri commerciali. Ciò nonostante, la sinistra, per decenni al governo della città, è arrivata al punto di definire il Comune di Venezia come una “utopia” e una “città bipolare”, un quadro clinico che a tutt’oggi è all’origine del malessere del capoluogo lagunare.
Grazie allo statuto speciale, Venezia potrebbe usufruire di agevolazioni fiscali ed esenzioni che servirebbero da richiamo per nuovi abitanti e imprese di qualità, compatibili con l’ecosistema più fragile del mondo. Senza i suoi abitanti Venezia è morta.
Ci troviamo in campo Sant’Angelo, ciascuno sul proprio asterisco disegnato con un gessetto al fine di garantire il rispetto delle distanze, quando l’avvocato e cittadino attivista Andrea Zorzi illustra l’idea di un piano per reclutare persone che intendano stabilirsi a Venezia: lo scopo è convincere gli smart worker a trasferirsi a Venezia con le loro famiglie. In appartamenti i cui proprietari si rifiutano – per amore di Venezia – di cedere al delirio Airbnb e vogliono affittarli ai neo veneziani. E Giancarlo Ghigi di »Ocio«, Ong veneziana che si dedica alle questioni abitative, spiega che la narrazione dei peer to peer, della sharing economy e della storia sulla stanza data in affitto per arrotondare lo stipendio basso è solo una favola: a Venezia, la città con la maggior parte degli alloggi italiani affittati tramite Airbnb, appena il 5 per cento dei proprietari raccoglie ben il 30 per cento del fatturato. Alcuni locatori possiedono centinaia di appartamenti. Risulta inoltre evidente come l’idea di affittare agli studenti gli alloggi Airbnb rimasti vuoti serva solo ad assicurare il mercato immobiliare fino al ritorno dei turisti.
Venezia si è trasformata in una hedge city, critica l’architetta e urbanista veneziana Paola Somma: è diventata un fondo d’investimento. Chi ha denaro, lo investe in intere porzioni di città storiche, una questione che non è sfuggita neppure al sindaco, che dopo la fine del lockdown ha fatto da imbonitore: “Americani, austriaci, stranieri, venite tutti, questo è il momento buono per comprare casa a Venezia.”
Per gli investitori, tuttavia, c’è un piccolo problema: una laguna deterioratasi in seguito a interventi sconsiderati e il cambiamento climatico. Assieme all’associazione no-profit »We are here Venice«, di cui è fondatrice, l’ambientalista Jane Da Mosto spiega che, senza la laguna, Venezia e i suoi beni culturali non possono essere salvati. Ecco perché lotta per la rinaturalizzazione della laguna, vero e proprio polmone di Venezia: quest’ultima è la città portuale con il più alto tasso di inquinamento atmosferico e va protetta da decisioni i cui interessi si trovano altrove, come, non da ultimo, ci insegna lo scandalo Mose. Già oggi, tuttavia, a pochi mesi dalla seconda marea più alta della storia di Venezia, si è tornati a parlare di istituire definitivamente il terminal crociere nella città lagunare e di scavare a questo scopo il canale Vittorio Emanuele. E sebbene i danni causati da ulteriori escavi dei canali siano scientificamente dimostrati.
Oggi l’unica certezza è che il Mose distrugge la laguna veneta e ha arricchito un’intera classe di politici e imprenditori, rivelandosi il più grande scandalo di corruzione del dopoguerra. A causa di un sistema di barriere anti mareggiata che non è stato né completato né testato in condizioni reali, 8 miliardi di euro sono affondati nel mare e nelle tasche di una casta politica.
Tutti i cittadini combattivi di Venezia vanno al passo coi tempi, soltanto il sindaco fa fatica ad adeguarvisi con il suo eterno mantra “senza il turismo Venezia è morta”. Il virus è l’immane catastrofe che non era stata prevista nei remunerativi progetti turistici veneziani. È la dorifora di Venezia.
Naturalmente, anche in passato ci sono state delle crisi: la guerra del Golfo nel 1990-91, gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, il fallimento di Lehman Brothers nel 2008. Ogni volta, però, Venezia si è risollevata velocemente e lo show è proseguito. Con più hotel, più alloggi per turisti, più crociere, più ristoranti. E con la gallina che provvede a fare le uova d’oro anche per tutto il Veneto, che viene chiamato “The Land of Venice” sebbene sia un paradosso, così logico come il sale dolce o l’acqua secca, ma assolutamente necessario per essere competitivi sul mercato del turismo emozionale. Non una città, bensì un marchio.
In questi giorni, non si vedono ancora flottiglie piene di cinesi solcare il Canal Grande e nel porto non ci sono ancora crociere. Ai viaggiatori americani non è ancora consentito arrivare e, in mancanza dei cinesi, in città si sono momentaneamente ricordati degli abitanti: il Fondaco dei Tedeschi è stato riaperto con un bizzarro “omaggio agli artigiani e ai designer veneziani”. Il palazzo rinascimentale già sede dei commerci tedeschi, e trasformato dai Benetton in un magazzino del lusso, è gestito dalla succursale cinese della holding Moët Hennessy Louis Vuitton ed è la Mecca dei turisti cinesi: al pianoterra, in quello che un tempo era il cortile interno, si trova una caffetteria col bel nome di „Amo“, che in italiano rimanda tanto al verbo amare quanto all’amo da pesca. È uno di quegli eleganti caffè che potrebbero stare bene dentro a un gelido centro commerciale tanto a Shanghai quanto a Berlino o Cleveland, e appartiene, come ormai è solito accadere a Venezia, a una S.p.A. che gestisce alcuni bar e ristoranti situati nei punti nevralgici della città. Di solito, intorno a questo caffè, i gruppi di turisti cinesi si aggirano come i pellegrini della Mecca intorno alla Kaaba, spinti dalle loro guide sbraitanti che spiegano a quale piano possono trovare gli orologi di Bulgari.
Il Fondaco, al momento, è vuoto, a smarrirsi al suo interno sono soltanto pochi turisti. Non ci sono ancora i voli low cost e, fino a quando le solite masse non si riverseranno nelle calli, i fast food, gli alloggi Airbnb, gli hotel, le pizzerie, i negozi “tutto a un euro” e le succherie rimarranno vuoti: Venezia si rivolge al turismo mordi e fuggi, non a quello sostenibile e rispettoso dell’ambiente. Il che per il sindaco, da quando è in campagna elettorale, rappresenta un problema: il prossimo 20 settembre, a Venezia si svolgeranno le elezioni amministrative e l’imprenditore Luigi Brugnaro, che non è iscritto a nessun partito, vorrebbe vedersi riconfermato nel suo incarico. Un desidero difficile da realizzare quando, come ora con la crisi in atto, non può puntare sulla solita promessa del “più, più e più”.
Alla svendita di Venezia Brugnaro ha impresso una velocità vertiginosa, spingendosi perfino oltre i suoi abili predecessori: l’avvocato Giorgio Orsoni, arrestato per la questione delle tangenti sul Mose; il sindaco-filosofo, coccolato dai media e riconfermato per tre volte, Massimo Cacciari, che con il suo manifesto sulle privatizzazioni già nel 1994 garantiva agli investitori di rimuovere gli ostacoli e Paolo Costa, che da presidente dell’Autorità portuale si è distinto per aver venduto il terminal passeggeri a una società privata.
Anche le politiche di Brugnaro sono quelle di un imprenditore: un camaleonte politico che è di destra per gli elettori di destra e di sinistra per i sostenitori della sinistra. Twitta come Trump, ha l’insulto facile e conflitti d’interesse come Berlusconi. Sebbene, quando è entrato in carica, abbia affidato la sua società di lavoro interinale a un blind trust, non ha mai perso di vista i suoi interessi: quelli per l’acquisto dell’isola di Poveglia, che – per il momento – non è ancora dato in porto poiché un movimento di cittadini si è messo di traverso. Oppure quelli per la Scuola Grande della Misericordia: costruita dal Sansovino, è stata concessa in gestione al sindaco fino al 2051, a fronte degli 11 milioni di euro che sostiene di aver speso per restaurarla. E che avrà già recuperato affittandola per eventi. A Venezia tutti sanno tutto. Anche senza La Nuova o Il Gazzettino.
Ed ecco perché, durante il suo mandato, è stato impossibile mantenere riservata la sua volontà di vendere a un investitore cinese, per almeno 200 milioni di euro, i Pili, un’area di 40 ettari sita a Porto Marghera che ha acquistato dallo Stato italiano per 5 milioni. Quando, a causa del palese conflitto d’interesse, l’affare è andato a monte, Brugnaro è scoppiato in lacrime: dietro la vendita non ci sarebbe che altruismo.
Stando alle sue parole, infatti, sarebbe l’amore per il prossimo l’unica motivazione dei suoi affari, così come del suo nobile gesto – compiuto all’avvio della campagna elettorale – di devolvere lo stipendio alle associazioni benefiche. Cosa che è meno generosa di quanto sembri, visto che, da quando è entrato in carica, il giro d’affari della sua società è considerevolmente lievitato passando, solo nei primi tre anni, da 441 a 702 milioni di euro.
Anche dopo la mareggiata dello scorso 12 novembre, il primo cittadino ha scommesso sul mercato e la memoria corta dei turisti. Mentre negli hotel di Venezia stavano piovendo disdette per le prenotazioni fino a 2020 inoltrato, nel mezzo della burrasca, stando sotto il porticato di palazzo Ducale con gli stivali di gomma ai piedi, ammise in prima serata di non sapere nulla del Mose e, tuttavia, di essere fiducioso. Una dichiarazione che fatta da un sindaco che è in carica da 5 anni è piuttosto sbalorditiva.
Per far fronte all’ondata di cancellazioni ha escogitato l’offensiva comunicativa “Venezia Oltre”: poiché gli affari già durante il Natale erano andati a rilento, pochi giorni prima del Carnevale, a Venezia sono stati fatti arrivare in aereo giornalisti da tutto il mondo, che hanno così potuto recarsi in visita a Piazza San Marco e dagli ultimi coraggiosi veneziani rimasti in città. Alle cene di gala, ai giornalisti è stato spiegato che l’acqua alta va e viene: un fastidioso fenomeno collaterale dovuto all’insularità, ma in fondo nulla che possa compromettere un viaggio a Venezia.
A Venezia, le campagne di disinformazione hanno una lunga tradizione: ne La morte a Venezia, Thomas Mann descrive come, nel 1911, si tentò di tenere nascosto lo scoppio del colera. E sulla rivista satirica Die Fackel, Karl Kraus raccontò come, nell’estate di quell’anno, gli albergatori e la città finanziavano inserzioni a tutta pagina per annunciare che Venezia, la reginetta di bellezza dell’Adriatico, tra le sue numerose attrazioni, ne annoverava una nuova: il Lido. Tutto il resto erano solo allarmismi inventati di sana pianta, lo stato di salute era dei migliori: “Venite a Venezia!”
Il Carnevale 2020 doveva essere la soluzione, con il momento clou previsto per il weekend che precede il martedì grasso. Mentre, con i focolai di Vo’ Euganeo e Codogno, il virus stava già incombendo all’orizzonte e nell’ospedale di Venezia, che in linea d’aria dista 500 metri da Piazza San Marco, venivano trasportati i primi infetti, in città affluivano 20mila persone. I disperati appelli al sindaco e al ministro dell’Interno perché l’evento fosse cancellato, allo scopo di evitare contagi, sono rimasti inascoltati. Solo una volta terminati tutti gli eventi, ovvero le feste nei palazzi, il Ballo del Doge alla Scuola della Misericordia gestita dal sindaco (prezzo del biglietto: 1.900 euro. Gli imprenditori associati a Confindustria hanno potuto beneficiare di una riduzione), il Carnevale è stato annullato. Alla mezzanotte di domenica. E il che è un po’ come annullare la festa del Natale a Santo Stefano, ha affermato un gondoliere i cui ultimi clienti erano una famiglia cinese.
Dalle conseguenze del turismo di massa, Brugnaro non è toccato personalmente: il primo cittadino non abita a Venezia, e neppure nel territorio della Città metropolitana, bensì a Mogliano Veneto, in provincia di Treviso. Per i veneziani, essere governati da chi non vive va Venezia è una vera e propria umiliazione. Da chi non condivide la quotidianità con loro, da chi non sa cosa si provi quando si sente l’urlo della sirena dell’acqua alta e bisogna correre velocemente per mettere in sicurezza tutto quello che si trova al pianoterra. Da chi non sa quanto sia doloroso vedere i propri figli lasciare la città perché non trovano un lavoro che non abbia a che vedere col turismo. Da chi non ha idea di cosa significhi farsi largo tra il milionesimo gruppo di turisti che si incontra lungo la calle gridando “permesso, permesso”. Da chi, con la costruzione degli hotel a forma di silos, ha solo peggiorato la vita a Mestre, dove gli abitanti sono già occupati a combattere con un traffico di droga onnipresente. Da chi non ha fatto nulla nemmeno per migliorare il destino di Marghera, i cui battaglieri abitanti da anni lottano per un cambio strutturale e chiedono di trasformare il sito petrolchimico di Porto Marghera in un parco tecnologico.
È da anni che a elaborare progetti concreti per la sopravvivenza di Venezia sono i cittadini veneziani. Ora, però, hanno trovato il coraggio di ribellarsi. “Niente cambia se non cambi niente”, è il motto che vuole dare una svolta alla campagna elettorale. Fino a oggi, infatti, gli unici a scendere in campo sono stati: un sindaco che si candida per se stesso e i suoi interessi; un esponente del Partito Democratico, che come un monolito ha dominato per vent’anni e in città non è benvisto, giacché gli viene addossata la colpa di aver favorito la svendita di Venezia; e diversi liste civiche, che sostanzialmente tali non sono, visto che si tratta di liste in appoggio all’attuale primo cittadino oppure al suo sfidante del Pd.
Ora, però, si è aggiunta una lista civica degna di questo nome, composta, cioè, da persone che non appartengono a nessun partito. “Terra e Acqua 2020 è il tentativo inedito di federare figure di spicco della società civile e delle realtà associative che da tempo si battono in favore dei residenti, come Gruppo 25 Aprile, Noi per Venezia o SìAmo Venezia”, afferma il fondatore Marco Gasparinetti, giurista che da anni combatte energicamente per gli interessi dei veneziani. “La nostra lista civica sarà presente con un suo candidato sindaco alle elezioni comunali”, annuncia. “Nostro obiettivo è che le decisioni riguardanti Venezia non vengano più prese a Roma nelle segreterie di partito o a Mogliano Veneto (TV) nella villa di un sindaco che non ha neanche fatto il gesto di trasferirsi nella città che dovrebbe amministrare. Per lui Venezia è solo un pollo da spennare.”
E poiché non volevo più solo guardare il dramma veneziano, mi sono unita agli insorti. Come tedesca, voglio soprattutto essere un punto di riferimento per i cittadini europei di Venezia, che, pochi sanno, possono esercitare il loro diritto di voto alle elezioni del sindaco.
Traduzione dal tedesco di Stefano Porreca