Ciao Petra (in memoriam Petra Froehmcke-Toffolutti 1947 -2018)

Quando la penso, la vedo sempre seduta in una barca da pesca veneziana nella luce di sera in laguna, con ‘sti occhiali da sole super cool sul naso. Questi occhiali da sole per alieni, in quanto possono essere indossati solo da donne che provengono da un’altra stella. Come Greta Garbo, che si fa una risata in Ninotchka. O come Marlene Dietrich, che cucina un brodo di pollo. Una donna simile era Petra.

Era bella e divertente, una berlinese irriverente in tutto e per tutto, e lo rimase anche dopo tanti anni a Venezia. Era la mia unica amica tedesca qui, ci siamo conosciute durante un pomeriggio da Gaston Salvatore, in quel momento entrambe vivevamo a Venezia solo da pochi anni. Ricordo che indossava il nero, quel nero punk, capelli biondi rigorosamente pettinati indietro e addosso stivali anfibi con borchie, un look che mi ha conquistato subito. Proprio come il suo ridere. Quel ridere di Ninotchka.

Petra era la laguna di Venezia e allo stesso tempo il Prenzlauer Berg, ma non quel Prenzlauer Berg imborghesito di oggi, pieno di loft e latte macchiato, ma il Prenzlberg che aveva ancora l’odore di lignite e dei gas di scarico dei motori a due tempi. Petra si era trasferita a Venezia poco prima della caduta del muro – con suo marito veneziano, lo scenografo e regista Ezio Toffolutti. Per me a quel tempo il teatro era un luogo dove uno doveva essere educato, un luogo in cui le consorti dei dentisti di Wuppertal cercavano di scioccare gli altri abbonati al teatro con addosso cappuccetti lavorati all’uncinetto. Grazie a Petra, ho capito che il teatro può essere libertà, natura selvaggia e verità della vita.

Il teatro era la  sua vita: Era praticamente cresciuta alla Volksbühne di Berlino, il che significava che socializzava con monumenti come Heiner Müller ed era amica con tutta la prima guardia del teatro tedesco, con Katharina Thalbach e Otto Sander, con Dimiter Gotscheff e Benno Besson con il quale suo marito aveva collaborato per dieci anni alla Volksbühne . E più tardi a Venezia era ovviamente amica anche con Ulrich Tukur e sua moglie Katharina John.

A Venezia, Petra lavorava come traduttrice  – non ultimo dei pezzi di Carlo Goldoni e Carlo Gozzi. Fumatrice accanita e traduttrice di alessandrini, questo era Petra. Può darsi che non fumava neanche in modo accanito, ma non importa. In ogni caso, ha tradotto la favola tragica Zobeide di Gozzi in tedesco e come drammaturga è riuscita a far tornare Gozzi a Venezia, sua città natale: non solo al Teatro Malibran che, dopo decenni di chiusura, fu riaperto con „L’amore delle tre melarance“ di Gozzi (l‘opera omonima di Prokofiev diretta da Benno Besson assieme il co-regista e scenografo Ezio Toffolutti), ma anche al Teatro Verde di San Giorgio, dove Besson e Toffolutti  dirigevano la prima mondiale dell’ “Amore delle tre melarance“, in un travestimento fiabesco di Edoardo Sanguineti.

Ricordo ancora come in quel momento il cielo nero notturno si tese sopra il Teatro Verde, e come abbiamo riso quando si bestemmiava in alessandrini contro il Grande Fratello, la bulimia e il morbo della mucca pazza. Abbiamo riso perché finalmente non dovevamo essere educati e non dovevamo assistere nessuno alla ricerca del suo Io autentico. Abbiamo riso del Re Silvio, a cui era cresciuto il trono al sedere, una specie di sede di potere, sul quale si lasciò cadere ogni due passi, abbiamo riso perché il grasso principe Tartaglia in calzamaglia soffriva di malinconia e di costipazione e perché il palco all’inizio del primo atto era coperto di spazzatura come la Piazza San Marco nella prima serata.

Questo è quello che avevo presente quando sono passata recentemente al Teatro Verde, dove il cielo notturno si tendeva sopra di noi e un pesce è saltato nella nostra barca. Dopo volevo chiamare Petra e raccontarglielo, e ne avremmo riso entrambe.

Ma poi mi sono ricordata che non posso più chiamarla. Perché la mia amica Petra è morta il giorno 8 agosto.