L’università di Augsburg mi ha chiesto di tenere la laudatio per Don Luigi Ciotti – al quale è stato conferito il 20 ottobre nella sala d’oro al municipio di Augsburg il premio „Mietek-Pemper per la riconciliazione e la comprensione tra i popoli“. Il premio porta il nome di un sopravissuto del campo di concentramento di Plaszów: Mietek Pemper è stato uno dei prigionieri che ha reso possibile la cosiddetta „lista di Schindler“, essendo stato il segretario ebreo di Amon Göth, il nazista comandante del campo di concentramento di Plaszów. Pemper era cittadino di onore di Augsburg.
Cari ospiti, Egregio Don Luigi Ciotti,
vorrei iniziare ricordando brevemente il mio primo incontro personale con Don Ciotti. Ero a Roma, dove l’organizzazione antimafia “Libera” aveva riunito gli Stati Generali dell’Antimafia, in un auditorium della città non lontano da Piazza S. Pietro.
Gli Stati Generali dell’Antimafia – l’espressione mi è piaciuta subito, era come se si riunisse un consesso di alti ufficiali scelti, pronti a far partire una rivoluzione; Stati Generali dell’Antimafia: un nome che suona battagliero, direi bellicoso – il nome giusto.
Sì perché l’Italia è un Paese in guerra. Una guerra che dura da oltre 70 anni. Una guerra della mafia contro i più deboli. Contro la dignità umana, contro l’autodeterminazione, contro la libertà. Una guerra combattuta non ad armi pari. La mafia lotta infatti con i suoi miliardi, con le bombe e i kalashnikov, con i parlamentari che approvano per lei riforme della giustizia, con imprenditori, grandi avvocati e cause di diffamazione. I loro avversari, per combattere, non hanno nient’altro che le mani.
Gli Stati generali dell’Antimafia che ho visto a Roma erano studenti con la barbetta a punta, donne incipriate che sembrava avessero appena finito di bere il caffè del pomeriggio, giornalisti con la gomma da masticare, giovani sacerdoti con il collarino ecclesiastico allentato, professori universitari con pantaloni di velluto marrone e ragazze dallo sguardo serio e con un piercing sul sopracciglio. Ottimisti militanti, che in Italia lavorano come volontari per le oltre 1600 associazioni di Libera: segretarie che rinunciano al proprio tempo libero per preparare incontri e letture di libri sulla mafia, registi che mettono in scena opere teatrali contro la mafia, studenti che organizzano marce di protesta via Facebook contro i parlamentari collusi e denunciano l’infiltrazione mafiosa nei consigli comunali. Ci sono anche ex mafiosi, pentiti che Don Ciotti assiste affinché non siano dimenticati dallo Stato, dopo aver consentito, grazie alle loro testimonianze, di avviare interi processi contro la mafia; affinché, dopo la fine della loro collaborazione con la giustizia, possano trovare una nuova identità.
Gli attivisti di Libera sono in tutta Italia e non solo nel meridione. Anche nei minuscoli villaggi del nord. Sono combattenti antimafia tutti riuniti nel foyer dell’auditorium, perché è il momento di ascoltare una ragazza, che sale sul palco indossando una luminosa sciarpa palestinese. Una ragazza che ha perso la mamma a Napoli, uccisa dalla camorra – una giovane madre, che si trovava in quella strada per caso, proprio lì, dove doveva essere ammazzato un boss. Una pallottola l’ha presa in pieno alla tempia, sua figlia, che allora aveva 10 anni, ha assistito dal balcone di casa al suo assassinio. La ragazza ora ha 17 anni e legge con voce ferma le parole di benvenuto del Presidente della Repubblica, che invita tutti a essere valorosi, coraggiosi.
E sento come qualcuno dietro di me si soffia il naso.
Nell’Auditorium siedono anche mogli e figli di poliziotti e magistrati assassinati, fratelli, sorelle e genitori delle vittime di mafia. Alcuni hanno pagato con la vita la lotta per la giustizia, altri si sono semplicemente trovati per caso nel momento sbagliato e nel posto sbagliato, lì dove è scoppiata una bomba, o colpiti da un tiro deviato durante una sparatoria, o ancora, testimoni oculari di una faida e per questo da eliminare.
È un popolo inconsolabile e furente che siede nella sala. Un popolo che vuole salvare i suoi morti dall’oblio, con pagine su Wikipedia, giorni della memoria, con fondazioni e gruppi Facebook. Fa bene non sentirsi soli. La mafia cerca sempre di isolare i suoi nemici, di screditarli, di beffarli, molti anche oltre alla morte.
Alla fine sul palco sale Don Ciotti, come sempre indossa un pullover blu scuro alla marinara, che gli conferisce l’aria di un prete della marina militare. Don Ciotti denuncia una società di disuguaglianza, condanna l’egoismo così duramente da far tremare i fiori sul palcoscenico e presenta una lista delle vittime di mafia. Dal 1893 fino ad oggi. Sottolinea, allo stesso tempo, che tutti questi magistrati, poliziotti, giornalisti, imprenditori, commercianti – tutte queste vittime innocenti della mafia non sono certo morte per avere una targa commemorativa o per essere ricordati in un corteo. “Sono morti con la speranza” dice “che altri insieme a loro e dopo di loro condividessero le stesse speranze di giustizia e s’impegnassero a realizzarle. Ecco noi siamo quegli altri“.
Don Luigi Ciotti fonda il movimento antimafia Libera nel 1995, per sottrarre terreno alla mafia – nel vero senso della parola. Libera gestisce infatti i beni confiscati alla mafia, realizzando così l’obiettivo del giudice Giovanni Falcone, assassinato nel 1992, che coniando la formula “Follow the money”, sosteneva già nel 1983 che gli arresti e le condanne non fossero sufficienti: senza adeguate indagini finanziare, la mafia non si può combattere. La mafia si colpisce solo se le si toglie quello che per lei ha più valore: i suoi possedimenti. E questo si riallaccia all’opera di Pio La Torre, sindacalista e politico, a cui si deve la prima legge italiana sulla confisca dei beni mafiosi – una legge che punisce l’appartenenza alla mafia e consente la confisca dei suoi possedimenti. La legge che porta il suo nome entra in vigore nel 1982, cinque mesi dopo che Pio La Torre veniva assassinato dalla mafia. Su ordine del boss Totò Riina.
“Ai mafiosi danno fastidio due cose: che vengano espropriati i beni illegitimi e che si risveglino le coscienze delle persone: una società consapevole dei suoi diritti e della sua responsabilità non si lascia ricattare dalla mafia. Il potere della mafia si basa non solo sulla complicità di alcuni bensì sull’indifferenza e sull’inattività di molti”, dice Don Ciotti.
E proprio per queste parole, il boss Totò Riina, dal carcere, ordina di ucciderlo. Durante l’ora d’aria, Riina viene intercettato quando dice a un altro mafioso: “Ciotti, Ciotti … è come Puglisi, lo potremmo anche ammazzare” – E l’altro replica: “Non preoccuparti, ci organizziamo”. Don Pino Puglisi era anche lui un sacerdote che aveva fatto un’enorme opera di sensibilizzazione in un quartiere di Palermo. Nel 1993, proprio a Palermo, viene ammazzato da Cosa Nostra.
Sì, la mafia è attaccata ai soldi. Non ha nient’altro. Non ha valori, non ha alcun fondamento ideologico. Per questo reagisce con stizza quando le viene sottratto il denaro, come Totò Riina che impazzisce all’idea che la sua casa a Corleone sia oggi gestita da Libera: la sua casa con i rubinetti d’oro, quella in cui oggi c’è una scuola di agricoltura e la sede della Guardia di Finanza.
Don Luigi Ciotti era già un uomo impegnato prima ancora di diventare sacerdote. E per dar voce a coloro che non l’avevano, fonda nel 1965 il “Gruppo Abele”, che aiuta tossicodipendenti, prostitute e criminali minorenni. Il nome “Gruppo Abele” è di per sé già programmatico. Si tratta di far conoscere la giustizia a vittime innocenti della violenza.
Nel 1972, Don Ciotti, a 27 anni,m è ordinato sacerdote – l’allora vescovo di Torino gli assegna come parrocchia la strada. Ancora oggi, Don Ciotti è un prete semplice, che ha rinunciato alla carriera ecclesiastica per lavorare nella sua parrocchia, la “strada”, in senso stretto e lato: nel periodo del terrorismo e degli anni di Piombo, Don Ciotti si prende persino cura di ex terroristi e fonda inoltre, negli anni ’80, LILA, la Lega italiana per la lotta contro l’Aids. Don Ciotti distribuisce preservativi quale metodo contraccettivo per non contrarre l’Aids. Per entrambe queste iniziative, Don Ciotti viene aspramente criticato da una parte del clero: dovrebbe preoccuparsi del benessere spirituale della comunità, non delle questioni sociali.
In Italia, infatti, non c’erano soltanto molti sacerdoti che hanno combattuto contro la mafia e per questo hanno pagato con la vita, come Padre Puglisi e Don Diana. C’erano anche preti, che tra le loro principali mansioni, annoverano la cura del benessere spirituale di alcuni boss mafiosi – alla fine, Cosa Nostra spera nella giustizia divina. A quella terrena, ci pensa da sola. I processi possono essere aggiustati, i giudici e i politici comprati.
Quando Nitto Santapaola, boss della famiglia mafiosa di Catania, viene arrestato, prima ancora che gli mettano le manette, afferra la Bibbia e la bacia. E quando il boss Michele Greco, soprannominato il Papa, durante il Maxiprocesso viene chiamato a rispondere per la morte di centinaia di persone, dice soltanto: “Io ho un dono inestimabile – la pace interiore”. Sul suo comodino, in cella, ci sono 4 libri con cui trascorre il tempo dell’ergastolo: il Vangelo, un breviario e due libri liturgici. Simile, la biblioteca del boss Totò Riina, che non dorme mai senza santini accanto al letto. E l’attaccamento alla Bibbia del boss Bernardo Provenzano è leggendario: quando, al termine dei suoi 42 anni 11 mesi e 2 giorni di latitanza, viene finalmente arrestato, i poliziotti trovano cinque Bibbie con alcuni foglietti e diversi passi sottolineati – Questi, come chiariscono gli inquirenti, non solo dimostravano quanto il boss fosse timorato di Dio, ma sono fondamentali per criptare i suoi messaggi: i pizzini, piccoli fogli di carta ripiegati che nell’era di internet, delle intercettazioni e dei controlli via satellite gli avevano consentito, fino a quel momento, di restare invisibile. Cosa Nostra decifrava i suoi biglietti con l’aiuto della parola di Dio. E poco fa si è celebrato il funerale di un boss in stile padrino a Roma. Sulla facciata della parrocchia di San Giovanni Bosco era appeso il ritratto a mezzo busto del defunto vestito come un clericale e caratterizzato con la scritta: „re di Roma“.
“Come religiosi, abbiamo naturalmente il compito di accogliere tutti, di non rifiutare nessuno – ma anche di fare le dovute differenze” – dice Don Ciotti – senza esimersi dal sottolineare che la mafia ha creato la propria idea di Dio. La fede dei boss è una fede senza etica – una fede per autoassolversi.
Don Ciotti ha il Papa dalla sua parte. Anche se Papa Francesco non è certo il primo che abbia condannato la mafia. Lo ha fatto Papa Giovanni Paolo II e anche Papa Benedetto. Papa Francesco però ha sottolineato chiaramente lo stretto rapporto tra mafia e corruzione, materiale e morale, quella che deruba di ogni speranza – in un sistema economico che, come Don Ciotti non si stanca mai di ripetere, ha perduto ogni etica e rapporto con il bene comune.
La lunga crisi economica in Italia ha arricchito la mafia. Molti imprenditori non vedevano una altra soluzione che rivolgersi a istituti di credito privati, dietro i quali si celavano usurai mafiosi. Don Ciotti lo ribadisce sempre: la mafia ha capito prima di tutti gli altri che la globalizzazione, l’ampliamento del cosiddetto mercato libero, significa essenzialmente trasformarsi un mercato privo di regole. La mafia ha preso a cuore questa causa e proprio grazie al libero mercato è riuscita a incrementare le sue ricchezze. Grazie al suo ruolo economico, influisce sull’andamento delle borse e controlla meccanismi finanziari complicati. Ne deriva un’enorme zona grigia, tra economia legale e illegale, ed è quasi impossibile fare una distinzione. O, come lo ha detto un magistrato antimafia di Palermo: “La mafia oggi è una componente strutturale del capitalismo finanziario“
È dal 2014 che l’Unione Europea ha stabilito che, per calcolare il Pil, il prodotto interno lordo degli Stati dell’Europa, bisogna inserire anche i fatturati dello stupefacente, della prostituzione e del contrabbando – ciò dimostra quanto l’economia legale si è avvicinata a quella illegale.
Il riciclaggio, sottolinea Don Ciotti, è l’anello di congiunzione tra la società e la criminalità, è il ponte che offre ai criminali l’opportunità di essere accolti dal sistema e di integrarsi, fino a sedere in commissioni di vigilanza, dove vengono prese importanti decisioni economiche, politiche e sociali.
Il riciclaggio è per la mafia lo strumento per entrare nella società, per decidere, per integrarsi.
Negli ultimi decenni stiamo assistendo non solo a una globalizzazione dell’economia ma anche a una globalizzazione della mafia. Nessun Paese le sfugge. In Italia vengono confiscati i beni – mentre la mafia rende suddita l’Europa, la colonizza.
E in questa sede desidero sottolineare la particolare responsabilità morale che spetta alla Germania. La Germania è un vero eldorado per i mafiosi. La mafia è presente qui da 40 anni. Ma da 40 anni, così come viene rivelata, così si dimentica.
Della Germania, la mafia apprezza la stabilità, il benessere e il fatto di essere sottovalutata. La mafia fornisce prostitute, cocaina, materiale pedopornografico, armi e manodopera a basso costo. Offre capitali di investimento per i servizi, fatture fasulle con cui “risparmiare” sulle tasse, smaltimento illegale di rifiuti tossici e – attraverso la violenza o la corruzione – il supporto per l’emissione di bandi pubblici o per il conseguimento di autorizzazioni amministrative.
L‘associazione mafiosa in Germania non è neppure reato come in Italia, dove la sola appartenenza a un clan è già perseguibile penalmente. E poiché l’associazione mafiosa in Germania praticamente non esiste, non esistono seppure sentenze in merito. Ne consegue che un altro strumento per la lotta alla mafia – ovvero la confisca dei beni, di fatto, in Germania, non c’è.
Grazie all’inversione dell’onere della prova, i mafiosi infatti non devono temere di dimostrare la provenienza dei soldi che riciclano qui in Germania. Quando un mafioso calabrese fu controllato dalla polizia tedesca, affermò che i 425.000 euro che aveva con sé erano per un amico. Nel momento in cui la polizia italiana propose una confisca preventiva del denaro, i colleghi tedeschi risposero che la confisca preventiva in Germania non è contemplata. Al contrario, in Italia, i beni possono essere confiscati in presenza del solo sospetto di associazione mafiosa.
Nella sua marcia trionfale nel mondo, la mafia non opera soltanto con violenza, brutalità, al contrario. Opera con i soldi e le belle parole.
Belle parole che si ritrovano non solo negli articoli, ma anche nei romanzi. Tanti giornalisti, scrittori e registi hanno trasformato la mafia in un fenomeno pop culturale. “Con la rappresentazione fittizia e romanzata, si alimenta il mito per cui sia la mafia (i cattivi) sia l’antimafia (i buoni) siano fenomeni lontani da noi, troppo distanti – che con noi non abbiano nulla a che fare”, dice Don Ciotti.
Don Ciotti sottolinea anche che rivelare i presunti segreti stessi della mafia non contribuisce di per sé a combatterla, al contrario. Naturalmente è importante comprenderne i riti, il codice, i simboli, ma se ci si focalizza soltanto su questi, ci si libera da un peso – si alimenta l’illusione che la mafia sia “altro”: un universo a sé e non, molto più, una parte della nostra realtà.
Ma la mafia non è un mondo a parte, tutt’altro.
Desidero concludere con le parole di una ragazza, suo padre e suo fratello mafiosi, dalla stessa mafia assassinati.
Rita Atria aveva 16 anni quando decise di raccontare alla giustizia tutto ciò che sapeva sulla mafia nel suo paese. Fu perciò ripudiata da sua madre e visse sotto falso nome a Roma. Quando il suo mentore, il giudice Paolo Borsellino, fu assassinato da Cosa Nostra, Rita si tolse la vita. Non aveva neppure 18 anni.
Nel suo diario scriveva: ““Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c’è nel giro dei tuoi amici; la mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarci”.
Congratulazioni Don Ciotti per questo premio e complimenti alla giuria per la sua scelta.
(Übersetzung: Lara Maroccini)