Due giorni fa c’é stato il rinvio a giudizio del processo „attentato al corpo politico dello stato“ – e qui si legge la testimonianza commovente di Salvatore Borsellino. Ecco la traduzione del mio articolo pubblicato il 16 febbraio nel Tagesanzeiger-Magazin in Svizzera.
Il processo Italiano
Perché Paolo Borsellino doveva morire? E come spari‘ la sua agenda? Venti anni dopo il massacro lo Stato e la Mafia si trovano per la prima volta in un’aula di tribunale.
Il giorno, il suo giorno, è freddo e piovoso. Un vento temporalesco soffia forte sugli striscioni dei dimostranti, su „Ai vivi dobbiamo rispetto, ai morti solo la verità“, su „Uniti contro la Mafia“, sulle cravatte degli avvocati, i berretti dei poliziotti e la giacca blu scuro di Salvatore Borsellino – che assomiglia così tanto al suo fratello assassinato, che la gente di Palermo trasale quando lo vede.
Salvatore Borsellino ha 70 anni. Vive a Milano, è ingegnere informatico in pensione e parte civile nel processo che dovrebbe fornire informazioni importanti sul retroscena dell’assassinio di suo fratello Paolo, il magistrato antimafia che fu assassinato dalla mafia il 19 luglio 1992, 57 giorni dopo il suo amico e collega Giovanni Falcone. „Lo stato processa sé stesso“ titolano i giornali: in quel giorno, il 30 Ottobre 2012, lo stato italiano siede per la prima volta nella sua storia sul banco degli imputati insieme alla mafia.
Durante quattro anni, cinque magistrati hanno indagato i retroscena della trattativa tra rappresentanti dello stato e la mafia: al fine di rinunciare ad ulteriori violenze, sarebbe stata garantita alla Mafia non soltanto la fine dei procedimenti penali, ma anche supporto politico. Tre politici italiani e tre carabinieri di alto grado sono accusati a Palermo di avere trattato con cinque boss mafiosi. I tre politici sono: il senatore Marcello Dell’Utri, già condannato in secondo grado per concorso esterno in associazione mafiosa, braccio destro, uomo di fiducia e figura chiave della ascesa politica di Silvio Berlusconi; l’ex ministro democristiano Calogero Mannino, come anche l’ex ministro dell’interno Nicola Mancino. Numerosi indizi provano il fatto che Paolo Borsellino venne a conoscenza della trattativa in corso, ad essa si oppose e per questo dovette morire.
Dov’è l’Agenda Rossa?
Quando Salvatore Borsellino attraversa il parcheggio del carcere Pagliarelli e oltrepassa la porta d’acciaio del braccio di massima sicurezza, alcuni manifestanti scandiscono „Resistenza, resistenza“ impugnando in alto quaderni rossi decorati con fiocchi nei colori nazionali italiani, sui quali c’e‘ scritto „Paolo Borsellino. L’agenda rossa“.
Questo giorno rappresenta una vittoria dell’Italia onesta, di quella Italia che vuole decifrare il passato per capire il presente, esclama Salvatore Borsellino ai microfoni dei giornalisti, finché viene spinto avanti verso l’aulabunker del tribunale. L’ex ministro Nicola Mancino, un uomo alto con un cappotto di trench, con la faccia arrossata si fa strada verso la sala del tribunale attraverso la calca dei giornalisti. Salvatore Borsellino cerca il suo sguardo. Vuole guardarlo negli occhi, almeno questo. Ma Mancino evita il contatto.
I manifestanti davanti al carcere sono arrivati da ogni parte d’Italia per l’apertura del processo, alcuni sedendo anche dodici ore in un autobus, per stare qui in piedi sotto la pioggia a scandire „Fuori la mafia dallo stato“. Tutti appartengono al movimento antimafia chiamato „Agende Rosse“: l’agenda rossa di Paolo Borsellino è diventata il simbolo della lotta contro l’alleanza malefica tra mafia e politica, da quando il magistrato insieme con le sue cinque guardie del corpo è stato fatto saltare in aria per mezzo di un‘autobomba in Via D’Amelio a Palermo, davanti alla casa di sua madre. L’agenda rossa, dalla quale Paolo Borsellino non si separava mai e nella quale notava incontri ed osservazioni, è sparita dal giorno dell’attentato, sebbene la valigetta da lavoro sia stata ritrovata intatta sul sedile posteriore della sua auto, ed anche la batteria di riserva del suo telefonino è rimasta al suo interno perfettamente intatta.
Gli attivisti del movimento „Agende Rosse“ non credono all‘idea romantica della forza guaritrice della cultura, come se si potesse sconfiggere la mafia come una debolezza di ortografia, ma cercano l’agenda rossa insieme a Salvatore Borsellino e con questa anche la verità. Condividono la consapevolezza che il segreto della sopravvivenza della mafia sta sopratutto nel rapporto di simbiosi con la politica. E‘ stato Paolo Borsellino a dire: „Politica e mafia sono due poteri che controllano lo stesso territorio: o si fanno la guerra o si mettono d’accordo“. Una dichiarazione che nemmeno oggi i partiti affermati sentono volentieri. Tanto più che le loro fondamenta cominciano a sgretolarsi: dietro le spalle dei politici è cresciuto in rete un ampio movimento di opposizione, il „Movimento 5 Stelle“, un movimento che lotta contro le polveri sottili come contro la presenza in parlamento dei condannati in via definitiva, contro la mafia e contro la privatizzazione dell’acqua. I sondaggi per e prossime elezioni lo danno ad una percentuale del 20 per cento – ragione per cui i partiti tradizionali scoprono tutti allo stesso momento appena prima delle elezioni la cosidetta „questione morale“, e affermano di volere presentare solo candidati senza condanne penali.
I giovani italiani sono disgustati dal cinismo della attuale classe politica – vogliono risposte. Per esempio da Giuseppe Ayala, un ex collega di Paolo Borsellino, che era andato in politica per il Partito Democratico. Quando Borsellino è stato ucciso, Ayala fu il primo ad arrivare sul luogo del delitto. Fece aprire con forza la porta dell’auto di Paolo Borsellino e prese la sua valigetta di lavoro. C’è perfino la foto di un carabiniere che ha in mano la valigetta, e la porta via dal rottame dell’auto ancora in fumo, per poi più tardi non voler più ricordarsi, a chi avrebbe dato la stessa valigetta. Il carabiniere più tardi dovrà rispondere della sue responsabilità di fronte alla giustizia, ma sarà assolto. Ayala fornisce sette versioni differenti sullo svolgimento dei fatti. Quando una giovane ragazza del movimento 5 stelle lo interroga sulle sue versioni contraddittorie, Ayala dice alludendo alla ricerca di verità di Salvatore Borsellino: „Anche Abele aveva un fratello“.
I retroscena mai chiariti della trattativa tra mafia e stato galleggiano da due decenni sull’Italia come una nuvola velenosa. L’esistenza della trattativa è stata già accertata da una sentenza a Firenze, ma la classe politica anche oggi non è interessata ad un chiarimento completo, che potrebbe costare in voti alle prossime elezioni. Molti italiani si indignano quando vengono a sapere che l’ex ministro dell’interno Nicola Mancino ha chiamato al telefono il Presidente della Repubblica italiana Giorgio Napolitano, per fare mettere in riga urgentemente i magistrati di Palermo. Mancino non vuole assolutamente essere interrogato dai magistrati a Palermo. Il consulente giuridico del Presidente tranquillizza Mancino: stia calmo perchè può essere sicuro che il Presidente si prenderà a cuore il suo problema e si impegnerà per lui. E sarebbe fatto di tutto affinché i magistrati palermitani non riescano a raggiungere nulla.
Appena ciò viene reso pubblico, Salvatore Borsellino chiede al Presidente della Repubblica di rendere noto il contenuto delle sue telefonate. Questo però non è soltanto rigorosamente negato, ma diventa oggetto di una ulteriore querela: il Presidente in malafede (non il telefono di Napolitano era sotto controllo, bensì quello dell’ex inistro dell’interno) incolpa il magistrati di Palermo di averlo ascoltato illegalmente.
I partiti cercano di salvare il salvabile e si esprimono contro il processo. Antonio Ingroia, procuratore aggiunto dell’indagine sulla trattativa stato-mafia, un ex discepolo di Paolo Borsellino, viene accusato di „antipolitica“. Finchè aveva portato avanti i processi contro il braccio destro di Berlusconi, Marcello Dell’Utri, Ingroia veniva celebrato come eroe dalla stampa di sinistra, ma da quando il Presidente Napolitano, l’ultimo stilita della sinistra è finito per puro caso nel mirino dei magistrati, regna buona armonia tra la stampa di sinistra e quella di Berlusconi: nel 95% dei media italiani si parla solo dei magistrati fanatici e pieni di sé. Ingroia verrà abbandonato persino da Magistratura Democratica. Per proteggere il processo, Ingroia decide di lasciare la responsabilità del processo, dopo la chiusura della fase delle indagini, e di andare in Guatemala, con un incarico antimafia affidatogli dalle Nazioni Unite. Ma a dicembre ci sarà un altra svolta sorprendente : Ingroia fonda un Partito che si chiama „Rivoluzione Civile“, ed entra in campagna elettorale. Secondo i sondaggi, il suo partito raggiungerà rapidamente il 5% dei consensi.
Il silenzio dei sopravvissuti
Con stupore Salvatore Borsellino osserva come tanti politici, giornalisti e giudici improvvisamente si sentono chiamati a rappresentare l’eredità del suo fratello assassinato. Sopratutto per affermare che Paolo Borsellino sicuramente non avrebbe apprezzato nè l’impegno di suo fratello, nè quello dei magistrati
Dai parenti delle vittime di mafia ci si aspetta sempre che sopportino il loro dolore in silenzio e che non si oppongano nemmeno quando il loro nome viene usato da falsi amici.
La vedova di Paolo Borsellino, Agnese, ed i suoi tre figli, sono stati a lungo in silenzio. Però hanno reagito con sdegno, quando l’ex-agente dei servizi segreti Bruno Contrada, condannato per concorso esterno per associazione mafiosa, affermava di essere stato un amico di Paolo Borsellino. In tribunale la vedova di Borsellino ripetè quello che suo marito le disse appena prima di essere ammazzato: „Ho capito tutto. Mi uccideranno, ma non sarà una vendetta della mafia. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno. Ma quelli che avranno voluto la mia morte, saranno altri“.
Per dieci anni Salvatore Borsellino è rimasto in silenzio. Nei primi cinque anni dopo l’attentato si è anche impegnato per diffondere il messaggio di suo fratello: andò nelle scuole e nelle università, e provò con questo a consolarsi, a credere che suo fratello aveva dopotutto raggiunto qualcosa, anche se non da vivo, da morto. E‘ stata la madre che ha spinto i fratelli, a fare di tutto per preservare l’eredità del figlio assassinato: „Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene“ aveva sempre detto Paolo Borsellino. Era convinto che la mafia non poteva essere vinta solo attraverso la repressione. La lotta deve essere un movimento culturale e morale, portato avanti dai giovani italiani: „Generazioni che sono sensibili al profumo della libertà e disgustati dal puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza e di conseguenza, della complicità“.
Ma quando nel 1997, la madre morí per Salvatore è come se si fosse dissolto un legame. Come se non ci fosse più corrente. Salvatore Borsellino non partecipa più né alle commemorazioni per suo fratello e per Giovanni Falcone, né alle discussioni dell’antimafia. Non mette più‘ piede in Sicilia.
E vede come tutto collimi al meglio. Per la mafia e per la politica. Sente i proclami di politici di destra come di sinistra, che bisogna finalmente smettere di tormentarsi con questi affari di mafia del passato. Non ci sono più né fiaccolate né lenzuoli bianchi, sui quali c’era scritto „Basta con la mafia“. La normalità, lodata da tanti politici, è il merito del padrino Bernardo Provenzano, che sà che Cosa Nostra può sopravvivere solo se non si mette contro lo stato, bensì se striscia di nuovo in esso.
Le dodici richieste della mafia
L’anno 1992 è stato un anno fatidico. Per la politica italiana. E per la mafia. Le consolidate certezze erano state spazzate via. Dopo la caduta del muro di Berlino la DC aveva perso lo spettro del comunismo ed i comunisti i soldi da Mosca. A Milano era in corso l’indagine Mani Pulite, che rase al suolo non soltanto i socialisti ed i democristiani, ma tutto il sistema dei partiti italiani. Numerosi politici ed industriali vennero arrestati. La mafia non aveva più un interlocutore politico. A gennaio 1992, le sentenze del maxiprocesso di Falcone e Borsellino vengono confermate in ultimo grado di giudizio, e non cancellate come la mafia avrebbe voluto. Per la prima volta il mito dell’invincibilità della mafia è distrutto.
Venne raggiunto un punto di svolta. A marzo 1992 la mafia uccide per la prima volta uno dei suoi protettori: Salvo Lima, l’ex sindaco DC di Palermo, governatore in Sicilia e luogotenente del presidente del consiglio Andreotti. Lima fu colpito da due killer, davanti all’Hotel Palace di Mondello. L’assassinio avrebbe dovuto essere un promemoria per Andreotti: per decenni il sostegno della la mafia gli era stato ripagato con voti elettorali, ma questa volta era mancato al suo dovere, non riuscendo ad annullare le sentenze del maxiprocesso. Dopo l’assassinio di Salvo Lima, molti politici democristiani erano terrorizzati di finire come Lima e facevano di tutto per salvare la propria pelle.
Già quattro anni dopo gli attentati alcuni pentiti rivelarono trattative tra i boss ed alti politici e funzionari italiani, e l’esistenza di una lista con dodici richieste, chiamata „papello“, attraverso il quale i mafiosi avrebbero offerto la fine degli atti terroristici e voti ai partiti. Le richieste andavano dalla revisione delle sentenze del maxiprocesso, la fine della confisca dei beni mafiosi, la fine del carcere duro al regime 41 bis e dell’utilizzo dei pentiti. Ed esse vennero, come qualsiasi attento lettore di giornale può testimoniare, tutte soddisfatte. Non solo dal governo Berlusconi, ma anche da quello di centrosinistra.
Più avanti un giovane magistrato comincia ad indagare sui mandanti segreti degli attentati mafiosi , tra i quali Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, che vengono sospettati di „concorso in strage“. Le indagini vennero archiviate. Marcello Dell’Utri, fondatore di Forza Italia e braccio destro di Berlusconi, viene però condannato per concorso esterno in associazione mafiosa a sette anni di carcere.
Il primo processo contro Marcello Dell’Utri non viene seguito però da alcuna televisione e da quasi nessun giornale. La mafia è scomparsa dalle notizie.
Nell’anno 2007 Salvatore Borsellino compie un pellegrinaggio a Santiago de Compostela. Vuole fare la strada con suo fratello. Prima di partire, si fa rilasciare due credenziali: una per sé ed una per Paolo. Questa credenziale permette ad i pellegrini di pernottare e di ricevere il certificato dal pellegrinaggio. Quando Salvatore Borsellino presenta la sua credenziale assieme a quella del fratello morto, le persone attorno cominciarono a piangere.
Dopo il suo ritorno, decide di rompere il suo silenzio. Adesso non è più la speranza che lo spinge. Ma la rabbia. Alle commemorazioni in Via D’Amelio il giorno della morte di suo fratello non sopporta più di vedere i politici. Per lui è come guardare in faccia gli assassini che tornano sul luogo del delitto per essere sicuri che la vittima è veramente morta. Quando vede che il segretario del partito di Berlusconi vuole deporre una corona di fiori, gli suggerisce di riprendersela e di metterla sulla tomba di Vittorio Mangano, il boss mafioso che visse nella villa di Berlusconi ed il quale viene descritto sia da Berlusconi che da Marcello Dell’Utri come „eroe“ perché rimase in silenzio fino alla morte.
Salvatore Borsellino si attiva
Essendo un ingegnere informatico in pensione, Salvatore Borsellino vive nella rete. Ha letto gli atti investigativi, le dichiarazioni dei pentiti e degli ex-colleghi di Paolo, legge sentenze, articoli, protocolli che rafforzano i suoi sospetti che suo fratello era venuto a conoscenza dell’esistenza della trattativa tra lo stato e la mafia, alla quale si era opposto. Nell’anno 2007 esce il libro „L’agenda rossa di Paolo Borsellino“, nel quale due giornalisti siciliani dimostrano minuziosamente come la mafia compì l’attentato seguendo gli ordini dei servizi segreti deviati, ragione per cui l’agenda rossa doveva sparire.
Poco dopo Salvatore Borsellino pubblica sul suo sito www.19luglio1992.com una lettera aperta dal titolo „Un massacro di stato“: chiede, perché non ci fosse un divieto di sosta davanti alla casa della madre, nonostante si sapesse che Paolo Borsellino andava dalla madre tre volte a settimana. Chiede perché le inchieste sui mandati segreti degli attentati di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino vennero archiviate. Perchè le indagini attorno i servizi segreti sono state archiviate. Perché l’ex ministro degli interni Nicola Mancino non si vuole più ricordare di aver incontrato Paolo poco prima del suo assassinio. Perché lo ha chiamato due giorni prima della sua morte incoraggiandolo ad un incontro con due capi della polizia, uno dei quali un capo dei servizi segreti che verrà più tardi condannato per concorso esterno in associazione mafiosa; un incontro che, come detto da un testimone, agitò Paolo Borsellino così tanto da non notare di aver acceso due sigarette nello stesso momento. „In questa intervista si trova sicuramente la chiave per la strage di Via D’Amelio“ scrive Salvatore Borsellino.
Il giorno della commemorazione del 2008 è diverso. Insieme a Salvatore Borsellino ci sono migliaia di giovani venuti da tutta Italia a Via D’Amelio a Palermo, per condividere la sua rabbia. Tengono in mano l’agenda rossa con il nome di Paolo Borsellino e fanno una marcia sul Monte Pellegrino, fino al Castel Utveggio, l’ex sede dei servizi segreti a Palermo. Tornano ogni anno e saranno sempre più numerosi.
Lentamente la luce penetra l’oscurità. Nell’anno 2008 la Procura di Palermo comincia le indagini sulla „Trattativa“, il negoziato tra lo stato e la mafia. Grazie alle dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza, la sentenza contro gli stragisti mafiosi di Via d’Amelio deve essere rivista: alcuni pentiti mentivano e hanno fatto dichiarazioni false su pressione del Capo della Polizia. Parte la richiesta per la revisione del processo.
Il collaboratore di giustizia Spatuzza viene ascoltato nel processo di secondo grado contro il confidente di Berlusconi, Marcello Dell’Utri. Descrive quanto euforici erano stati i boss, dopo che attraverso Dell’Utri si erano assicurati un collegamento con Berlusconi: la trattativa tra Stato e Mafia sarebbe andata finalmente a buon fine, il paese intero sarebbe in mano loro, grazie ad un compaesano siciliano e „quello di Canale 5“, appunto, Berlusconi.
Ed anche Massimo Ciancimino comincia a testimoniare. È il figlio del mafioso Don Vito Ciancimino, ex sindaco di Palermo. Massimo Ciancimino accompagnò il padre in tutte le sue azioni, fu il suo segretario e messaggero. Portava messaggi per suo padre, ai boss e alti funzionari dello stato, e testimonia ora riguardo i negoziati con carabinieri di altro rango al quale suo padre partecipò con la speranza di ricevere per il suo impegno uno sconto di pena per la condanna penale sovrastante. Don Vito aveva organizzato l’arresto del boss Toto Riina nel 1993. Riina era una specie di parafulmine per la trattativa tra stato e mafia, il suo arresto doveva tranquilizzare gli italiani: Vedete lo stato italiano non è ancora sconfitto!
Subito dopo però fu arrestato anche Don Vito Ciancimino. Era diventato ormai superfluo, essendo democristiano incarnava il vecchio sistema dei partiti, rappresentava più il regno dei morti che il futuro. Ed è a questo punto che continua la strategia del terrore: nell’estate 1993 seguivano ulteriori attentati, Cosa Nostra mise bombe a Firenze in Via dei Georgofili, vicino agli Uffizi; a Roma, di fronte alla chiesa di San Giorgio al Velabro; a Milano in Via Palestro, non lontano dalla Galleria di Arte Moderna.
Nello stesso momento comincia una nuova fase di trattativa con lo stato, con il braccio destro di Silvio Berlusconi e fondatore di Forza Italia, ed oggi Senatore Marcello Dell’Utri. Un siciliano. Sarebbe stato prescelto da Cosa Nostra, perché avrebbe già investito con successo soldi per il boss Stefano Bontade nelle società Fininvest, di proprietà di Silvio Berlusconi. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino ebbero Dell’Utri già nel mirino delle indagini, come testa di ponte della mafia nel Nord-Italia. Nell’ultima intervista di Paolo Borsellino prima del suo assassinio parla di Vittorio Mangano, il mafioso, che viveva su raccomandazione di Marcello Dell’Utri nella villa di Berlusconi come cosidetto stalliere. Una villa nella quale non c’erano cavalli, ma piuttosto tanti interessi da curare.
Anche se a Massimo Ciancimino viene rinfacciato sempre di fornire dichiarazioni col contagocce e di mantenere il silenzio attorno ad alcuni importanti agenti segreti coinvolti, le sue dichiarazioni trovano riscontri con quelle dei pentiti, e spinge numerosi personaggi a rompere il loro decennale silenzio. Improvvisamente torna la memoria perfino all’ex presidente della commissione parlamentare antimafia, ad un‘alta funzionaria del ministero della giustizia ed al ministro della giustizia del tempo, Claudio Martelli, i quali ricordano di essere venuti a conoscenza dell’esistenza della trattativa subito dopo l’attentato a Giovanni Falcone. L’ex ministro della giustizia dichiara di aver mostrato le sue perplessità al ministro degli interni del tempo, Nicola Mancino, chiedendo come fosse stato possibile per un funzionario della polizia avere l’idea di trattare con la mafia senza informare la direzione nazionale antimafia.
L’ex ministro dell’interno Mancino nega però imperturbabilmente di aver saputo dell’esistenza della trattativa tra stato e mafia. Dopodiché viene accusato di falsa testimonianza dalla procura di Palermo, il suo telefono viene messo sotto controllo, perché sospettato di mettersi d’accordo sulle dichiarazioni da fare con altri sospettati.
Attorno all’utilizzo delle dichiarazioni di Massimo Ciancimino si accende una guerra di religione. La Procura ed anche Salvatore Borsellino verrano duramente criticati. Paolo Borsellino si girerebbe nella tomba, se sapesse che suo fratello ha dato credito alle dichiarazioni del figlio di Don Vito Ciancimino, dice il figlio di un altro magistrato ucciso dalla mafia. „Purtroppo mio fratello non può girarsi nella tomba“, dice Salvatore Borsellino, „perché è stato fatto a pezzi“.
„Il tritolo per me è già arrivato“
Ogni volta che Salvatore Borsellino torna a Palermo, cerca di ritrovare la sua infanzia. La trova nei cubetti di porfido delle strade del centro storico, nel tufo dei palazzi e nella terra rossa di Palermo che profuma di Africa quando piove. Quando Salvatore Borsellino cammina nelle strade, la gente va da lui, gli stringe la mano e lo guarda, come se fosse un fantasma.
I fratelli Borsellino sono cresciuti non lontani da piazza Magione, nel quartiere popolare chiamato Kalsa, dove giocavano in mezzo a tisici palazzi barocchi, decadute residenze nobili e rovine della guerra. Fino a poco tempo fa si poteva qui guardare Palermo fino in fondo alla faringe: c’erano case sfondate come crani dal tempo dei bombardamenti alleati del 1943. Oggi, grazie a fondi europei le rovine sono state di nuovo ricostruite, i palazzi rinnovati di fresco, e dove prima c’erano negozi di ceramisti e arrotini, ci sono ora bed&breakfast e lounges.
Su di un lato di piazza Magione si trova ancora oggi la scuola di entrambi i fratelli. E dove prima c’era la farmacia gestita dai Borsellino, volano ancora scintille, un fabbro ha il suo negozio, ma tra poco lo abbandonerà. Salvatore Borsellino vuole creare un punto di incontro che porti il nome di suo fratello.
Salvatore, appena finiti gli studi, andò a vivere a Milano. Non sopportava di vedere come durante gli anni settanta la mafia aveva devastato la faccia di Palermo con gigantesche speculazioni edilizie che vennero chiamate „il sacco di Palermo“. Da un giorno all’altro vennero rasi al suolo palazzi nobili e ville in stile Liberty insieme con i loro giardini a labirinto, archi e fontane, e sullo stesso terreno la mafia costrui casermoni di cemento. Il lavoro lo trovavano solo quelli che avevano i „santi in paradiso“, cioè qualcuno che poteva fare un favore, che poi in seguito doveva essere ricompensato a sua volta con un altro favore.
Paolo Borsellino desiderava che il fratello piccolo tornasse dalla sua famiglia a Palermo, era preoccupato poiché il fratello aveva rinunciato ad un posto fisso per andare a Milano a fondare una società di informatica. Quando si telefonavano, Paolo domandava al fratello: „Totò, perché non torni a Palermo?“ e lo rimproverava di non amare abbastanza la sua città natale.
Le ultime ferie che i due fratelli trascorsero insieme, furono quelle del natale 1991/92. Si incontrarono in Trentino, anche se poi Paolo dovette partire prima del dovuto: durante la notte di San Silvestro ci fu una strage di mafia.
Dopo che la mafia nel maggio 1992 uccise Giovanni Falcone, sua moglie e tre guardie del corpo, Paolo Borsellino lavorava giorno e notte. Voleva sapere perché il suo amico doveva morire. Sebbene non avesse alcun incarico per quella indagine, interrogò testimoni oculari, colleghi, poliziotti, carabinieri e testimoni, andò a Roma a discutere con il ministero e registrò tutto nella sua agenda. Sapeva di non avere più‘ molto tempo: „Il tritolo per me è già arrivato“ confidava ai colleghi. Ognuno in famiglia, sua moglie, i figli, ed anche Salvatore che viveva a Milano, percepivano il pericolo nel quale Paolo si muoveva.
Quando due giorni prima della sua morte parlò l’ultima volta con lui, Salvatore provò a convincere il suo fratello più‘ grande ad andare via da Palermo.
„Se resti, ti uccidono“, dice Salvatore.
„Tu sei scappato da Palermo. Ma io non scappo“, risponde Paolo.
Il giorno della prima udienza del processo sulla trattativa Salvatore Borsellino siede in un bar a Mondello. Da poco ha comprato una casa qui, perché Mondello sembra sempre essere quella degli anni cinquanta, quando lui arrivo‘ con il fratello e facevano passeggiate insieme fino al faro, la bicicletta sulla spalla.
„Per me è come se avessi mantenuto una promessa“, dice Salvatore Borsellino, „sono tornato“.
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